A confronto con l’artista milanese che ha immortalato la precarietà e l’isolamento della recente pandemia.
Giuseppe Gioxe De Micheli, classe 1947, è nato a Milano, città dove tuttora vive e lavora. Gioxe è semplicemente la voce dialettale genovese di Giuseppe.
L’artista, ancora giovanissimo è andato a “bottega” da due tra i più rappresentativi esponenti del “Realismo esistenziale”, Giovanni Capelli e Giuseppe Martinelli. Successivamente, a Brera, sotto la guida di Gianfilippo Usellini, ha frequentato i corsi di Decorazione e Affresco.
Ho visitato la sua mostra, poco tempo fa, alla Galleria Aref di Brescia, e ne sono rimasto talmente coinvolto che ho subito cercato di incontrarlo e intervistarlo.
Parlaci dei due precari anni di pandemia e solitudine, tra marzo 2019 e giugno 2021, che ti hanno portato a questi risultati. Hanno apportato nella tua poetica nuove riflessioni, capaci di generare immagini e iconografie finora inedite, come quella della mascherina sanitaria trasformata nel simbolo di un preciso tempo storico.
“Le opere che compongono la mostra Pandemiche – Due anni di solitudine sono il frutto di una di circumnavigazione che ha avuto al suo centro il mio mondo poetico calato nell’oggettiva realtà della pandemia. Un tema che ha dato il via a uno scavo nell’immaginario, nella storia, nei sentimenti, nella precarietà; un frutto maturato in un momento, per certi versi eccezionale, della nostra esistenza. L’isolamento, il cosiddetto lockdown, soprattutto nella prima fase, mi ha portato a un primo gesto di ironico sberleffo, un “Tromper la mort” liberatorio.
In seguito, con il concatenarsi di notizie sempre più dolorose e drammatiche, il mio lavoro si è concentrato su una maggior introspezione con una particolare attenzione alla figura umana e alla sua condizione precaria. Ne sono esempio le opere dedicate a Egon e Edith Schiele, vittime della pandemia di Spagnola del 1918, gli studi preparatori e la grande tela, Allegoria delle mascherine, dove, in una sorta di marcia senza tempo, gesti congelati e monocromi, ciechi o muti, trasfigurano una storia di violenza degli uomini sugli uomini. Un’immagine dunque di tragica attualità”.
Il fatto di essere rimasto “imprigionato” nel tuo studio senza poter reperire il materiale necessario ti ha obbligato a far di necessità virtù. Come in una sorta di incidente di percorso per poter ripartire e trovare lo stimolo necessario per affrontare la sfida…
“Sì, ho usato infatti materiali poveri e ho dipinto usando pochissimi colori, come fossero appunti per sottolineare la precarietà del momento, l’attesa che tutto si modifichi e volga al meglio: una sorta di scongiuro contro l’avversità, contro ogni previsione. Nella mostra prevalgono le opere su carta, cartone e altri supporti di fortuna. Una necessità data appunto dalla difficoltà di reperire i materiali durante l’isolamento. Simbolicamente risulta ancora l’evidenza di una precarietà, di un disagio” ha concluso Gioxe De Micheli.
Gianbattista Bonazzoli
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