A colloquio con la figlia Aurosa per ripercorrere l’attività del grande architetto e designer di Torre Annunziata scomparso nel 2015.
nell’immagine: ritratto di Filippo Alison. Seduta Hill House 1 di Charles Rennie Mackintosh – Cassina I Maestri Collection. Palazzina Rosa (Napoli) e bollitore Vesevo (foto provenienti dall’archivio Filippo Alison).
Non sono una giornalista e non ho nemmeno la presunzione di poterlo sembrare. Scrivo esclusivamente per passione, quindi abbiate pazienza, ma in molto di quanto leggete in questa rubrica sono determinanti la curiosità e il desiderio di raccontare la vita di chi ha fatto la storia del design… Seguo da un lato dati oggettivi e dall’altro anche il cuore, il mio cuore, che ad ogni intervista si arricchisce di momenti indimenticabili.
E pensando a chi la storia l’ha condizionata contribuendo in buona parte a fare la fortuna di alcune importanti aziende, non posso non seguire le orme lasciate per Napoli da Filippo Alison (scomparso nel 2015). Consideriamo questo servizio un’intervista alla memoria, un’eccezione, un tributo al grande architetto del sud Italia, il racconto di un vero e proprio viaggio.
Nato a Torre Annunziata, Filippo Alison aveva nelle origini anche una parte scozzese che si mostrava attraverso il suo aspetto. Si dice però che fosse più napoletano dei napoletani, almeno così sosteneva Franco Cassina. Per ricordarlo ho incontrato, poco lontano da Napoli, la figlia, Aurora Rosa all’anagrafe, Aurosa nella vita. Arrivo sotto un sole cocente, avvolta dai colori del mare, e giungo a “Itaca”, così come viene chiamata la casa di Nerano. Mi ritrovo di fronte ad una scultura ricavata nella roccia, o ad una porzione di roccia inglobata in una splendida casa…
Il tutto è poco chiaro perché la costruzione si integra perfettamente con quanto si trova intorno e risulta impossibile leggere i confini fra natura e architettura. Vengo accolta come se fossi di famiglia: Aurosa è una persona estremamente cordiale e iniziamo subito a parlare liberamente.
Tuo padre faceva parte di una famiglia numerosa e ha vissuto i tempi della guerra: come si è avvicinato all’architettura?
“Era nato nel ’30. Durante la guerra ha fatto di tutto, vendeva anche le sigarette agli americani, ma aveva la passione per i materiali. Il nonno era fabbro e la nonna sarta: credo che mio padre abbia imparato a sperimentare perché circondato dalla materia”.
Il fatto di avere un cognome straniero può in qualche modo aver influito nella sua carriera nella Napoli di quel tempo?
“Mio padre era estremamente legato a Napoli ma aveva una mentalità molto libera e incredibilmente aperta per l’epoca, quindi il cognome per così dire “esclusivo” lo ha certamente aiutato e non penalizzato… Era una sorta di giustificazione del suo modo di essere”.
Filippo Alison è stato art-director di Cassina per molti anni. Come viveva questo ruolo? Come è nata la collaborazione?
“Il rapporto con Cassina era molto stretto. Rodrigo Rodriguez, dal 1973 al 1991 direttore generale, presidente e amministratore delegato di Cassina, era un caro amico: c’era rispetto reciproco e grande stima. La collaborazione è nata a seguito di uno studio che mio padre fece sui prodotti di Charles Rennie Mackintosh che poi portò alla messa in produzione di tutta la collezione “I maestri”.”
Stiamo parlando di patrimoni dell’umanità… Ed effettivamente, non tutti sanno che proprio a tuo padre si deve la possibilità di avere in casa una chaise longue LC4 di Le Corbusier, per esempio. Ma perché si era focalizzato sui prodotti di altri architetti?
“Mio padre iniziò con quello che riteneva un suo mentore. Mi riferisco a Mackintosh, anch’egli scozzese. Si sentiva come la responsabilità di riproporre quei prodotti e farlo in chiave leggermente più contemporanea. Aveva fra le mani la storia, centinaia di prototipi, e apportò le modifiche necessarie per renderli commercializzabili, lasciando invariata la forza dell’oggetto stesso. Inizialmente presentò il tutto ad un’azienda che rifiutò il progetto, ma non si perse d’animo e lo ripresentò a Cassina che accettò”.
Tuo padre faceva quindi parte della vecchia scuola dei tecnici, quelli che non vivono per la pura estetica ma che possono morire per lo studio di un tubolare o di un meccanismo… Ridiamo…
“Sì, esattamente. Studiava ogni parte del prodotto, per poi passare all’adeguamento tecnologico e così ha fatto per tutta la collezione dei maestri, da Mackintosh a Le Corbusier, da Frank Lloyd Wright fino ad arrivare ai pezzi iconici di Asplund e Rietveld. Tra mille prodotti riusciva a dirti quale avrebbe avuto un buon ritorno commerciale negli anni a seguire”.
Quindi possedeva quella lungimiranza commerciale che al giorno d’oggi è piuttosto rara. Ma parliamo della sua produzione. Vinse anche un Compasso d’oro…
“Sì, lo vinse nel 1986 con un bollitore in argento di nome Vesevo che, insieme alla caffettiera Filumena, sono stati gli oggetti più rappresentativi della sua produzione. Poi ha progettato la Palazzina Rosa a Napoli, unica sua opera architettonica, e curato gli interni di moltissime abitazioni. Per lui l’arredamento d’interni era fondamentale tanto da riuscire nell’intento di istituire un corso specifico triennale all’Università di Napoli” conclude Aurosa.
Filippo Alison non parlava molto, anzi dosava le parole. Era simpatico, aveva l’aspetto da vichingo e, nella voce, il calore di Napoli. Non si è mai trasferito nella Milano dei maestri, degli architetti per così dire arrivati perché preferiva il calore della sua terra. Ma a lui si deve la più grande operazione filologica, colta e lungimirante del secolo scorso, ora patrimonio di tutti.
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Cristina Giorgi
Spazio metodo
cristina.giorgi@dentrocasa.it
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