Un’indagine sull’opera dell’artista ferrarese Ottorino De Lucchi
Vi è mai capitato di scendere l’argine del torrente e camminare sulla riva sassosa seguendo il corso dell’acqua che viene dal monte e di trovarvi all’improvviso rinchiusi nel fitto pioppeto dove penetra una luce che rimbalza sulle foglie argentate?
Così mi pare accada nei quadri di De Lucchi, dove da un nero assoluto emergono sprazzi di luce in assoluta indipendenza da quello che accade intorno. Come se lo scopo di questo fare non fosse che quello di glorificare il colore, che non è nelle cose ma dalle cose emana. Come se la luce interna fosse lì col solo scopo di emergere, come fa la luna quando nella notte appare nel suo splendore assoluto.
Allora mi domando come fa De Lucchi ad accendere quella luce, che si spande come spinta da dietro da un misterioso folletto addestrato dalle fate a fare questo genere di scherzi. E il nero cos’è se non il magico contrappunto al magico espandersi di tutti i lumi che accendono questa notte di inusitati bagliori.
Non è importante che questi quadri siano chiamati Nature Morte: tutto smentisce l’immobilità degli oggetti, trascinati come sono dentro una metafisica luce che comunica il mistero del colore; prima che le odierne stravaganze finiscano col far dimenticare l’ultima gioia degli occhi, la più intima e la più sacra, che induce il cuore a palpitare; come succede quando, dallo spiraglio della porta socchiusa, si riesce a intravedere quella cosa che gli antichi chiamavano “Bellezza”.
Estratto da un testo di Giorgio Scalco
Gianbattista Bonazzoli
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