L’artista milanese ci racconta la sua esperienza nello studio di Hudson
nell’immagine: “Angel’s ladder”; “An open sequence of events”.
Lucio Pozzi è nato a Milano nel 1935. Ha studiato Architettura a Roma ed è approdato negli Stati Uniti nel 1962 dove ha esposto in diverse gallerie d’arte. Oggi si divide fra Valeggio sul Mincio (Vr) e Hudson (NY), dove l’abbiamo incontrato per voi, nel suo studio. Vedo opere molto grandi ma anche quadri piccolissimi… “Ci sono molte opere qui…
Due terzi sono state esposte e pubblicate e mi dispiacerebbe rottamarle. Appena ho spazio, tempo e quattro soldi non resisto alla tentazione di buttarmi a fare arte. Mentre dipingo una grande tela, per rimaner cosciente delle dimensioni, su un altro muro ne dipingo anche una piccola e sovente molto diversa per tono e stile. Il fatto che cambi di continuo tipo e modo di fare arte ha spiazzato molti… “La verità è che dopo un po’ diventa sempre più chiaro che lo scarto fra le mie modalità di fare arte non è poi tanto ampio.
Comunque negli anni ho trovato precedenti che mi rassicurano: lo scrittore portoghese Fernando Pessoa o il pittore giapponese Katsushika Hokusai che usavano spesso nomi diversi. O Francis Picabia, che veniva deriso o ignorato e adesso lo cercano in molti”.
Ma tu hai fatto intere mostre di lavori fotografici e hai costruito installazioni e reciti in azioni da te inventate. Cosa lega queste cose? “Sono tutte riferite alla pittura in un modo o in un altro ma spero che sia la sensibilità ineffabile a connetterle. Si possono anche rintracciare specifici fattori che tornano da opera a opera, a volte in cicli. Per me l’ossessione del nostro mondo di cercare una “coerenza-imballaggio”, nell’arte produce solo un senso di inedia mortale”.
Questo “cavernoso” magazzino che ti fa da studio è pieno di ricordi. Pesano a volte? “Succede che mi vengano attacchi di malinconia acuta dovunque mi trovi, più che altro perché sento di vivere nella proiezione verso una vita infinita pur sapendo che essa è breve. So bene che quando smetterò di vivere non avrò conseguito che un frammento di tutto quello che avrei voluto fare, ma questo non mi disturba affatto. Vincono sempre la curiosità e il senso dell’assurdo. Spero che ogni opera rifletta la forza e la magia di tutte le altre e che celebri la vita, l’amore, la paura e la loro brevità. I miei temi sono in continua “ebollizione”. Non predispongo il tema di un lavoro.
Scelgo soltanto i termini entro i quali mi getterò nell’incognito. Mentre opero emergono mille riferimenti, mille sentimenti, mille idee… Proprio per questa ragione, specialmente in pittura, non so mai quando un’opera è finita”.
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di Gianbattista Bonazzoli
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